
In occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime del Corona virus condividiamo il bel racconto di Valerio Tarantola che è stato nel periodo del primo lockdown uno dei tanti cittadini bolognesi che si è messo a disposizione della comunità diventando volontario Auser per l’emergenza.
UN TELESCOPIO SUI PIANEROTTOLI
Di Valerio Tarantola
A volte mi chiedo: ma quando tutto questo sarà finito, cosa mi sarà rimasto? Cosa mi ricorderò? Come valuterò questa esperienza?
Per la prima volta nella mia vita mi sono ritrovato a rendermi conto che stava succedendo qualcosa “nel mondo” che andava a modificare la mia vita quotidiana. Mia, e di tutte le persone a me vicine.
Avevo sempre percepito un distacco, un confine netto tra “quello che si legge sui giornali e si vede in TV” e la mia vita reale. Sì, certo, cambiavano le leggi, cadevano i governi, si andava a votare, l’Italia vinceva o perdeva i Mondiali e stavamo quasi tutti incollati alla TV a guardare Sanremo. Ma, pensandoci bene, la mia vita quotidiana, e quella delle persone accanto a me, non cambiava.
Adesso, invece, no. Adesso, quel che dicono sui giornali o sui social riguarda le cose della mia giornata, di ogni mia giornata.
Da un mese non vado più in ufficio. Da un mese se esco per qualsiasi cosa che non sia andare a fare la spesa per me o per qualcun altro e mi chiedo cosa pensano le persone che mi incrociano. E loro? Chissà perché sono uscite? Dove staranno andando?
Da quasi due mesi non torno a trovare mia mamma. Da quasi due mesi non posso più andare a bere una birra con i miei amici. E ripenso a quell’ultimo selfie, in quattro seduti attorno al tavolo del pub, stando attenti a non toccarci perché già era vietato toccarsi e avvicinarsi o consumare stando al bancone.
* * *
E quindi mi chiedo: ma quando tutto questo sarà finito, come valuterò questa esperienza?
Ma non mi importa adesso come la valuterò quando sarà finita, se mai finirà, e come finirà.
Adesso la sto vivendo e mi sta già dando tanto, mi sta facendo vedere e sentire cose nuove, diverse.
Quando ho realizzato chiaramente che “qui sta succedendo davvero qualcosa”, non ho avuto dubbi. Io, che ho quasi sempre avuto dubbi e perplessità e remore prima di decidere se fare una cosa o meno, soppesando pro e contro con il bilancino, questa volta di dubbi non ne ho avuti: “Voglio fare qualcosa”, “Devo fare qualcosa”.
Ma “purtroppo” non sono un medico e nemmeno un infermiere, e nemmeno lavoro in una fabbrica di mascherine o cose simili. Cosa posso fare?
Cosa può fare di utile un ingegnere che per dieci anni si è occupato di calcolare il diametro di tubi del gas o dell’acqua da posare sotto le strade delle nostre città, o dell’importo di contratti milionari o del valore di una cabina di riduzione del gas; cosa può fare di utile per gli altri, e quindi anche per se stesso, adesso?
Ho scritto all’AUSER, alla Croce Rossa e alla Protezione Civile: “sono disponibile per fare qualsiasi cosa”.
E adesso eccomi qua, dopo un mese di spese a domicilio per il progetto “L’unione fa la spesa”.
Le mie giornate sono scandite molto regolarmente, dal lunedì al sabato: smart working la mattina e nel primo pomeriggio; e poi le spese.
La mattina arriva puntuale il messaggio Whatsapp di Giovanna, la nostra coordinatrice. Sono le foto della sua calligrafia con, in ordine dall’alto al basso: il nome del beneficiario, l’indirizzo, il numero di telefono, e poi… e poi tutti i prodotti del mondo che si possono trovare sugli scaffali dei supermercati. Alcuni non li conoscevo nemmeno. Messaggio allarmato su Whatsapp: “Giovanna scusa, ma cosa sono le asparagine?” E poi 4 banane, 7 arance tarocco, 2 Kg di mele golden, […] Conosco quasi a memoria tutto il supermercato, la COOP di San Ruffillo. Quasi, perché ogni tanto arriva il colpo a sorpresa: 1 confezione di panna monodose per caffè UHT e 1 cestino di nespole. What? Ma lo smartphone con internet aiuta anche a risolvere questi dubbi. E se no, c’è Giovanna e ci sono le commesse ed i commessi della COOP. Anzi, è più bello chiedere a loro. Sono quasi sempre molto gentili e disponibili. Le opportunità di conversazione in questo periodo non abbondano: perché rinunciare all’occasione di due parole, un sorriso e un grazie?
[…]
* * *
I beneficiari delle spese, nonostante questo nome altisonante e ingannevole, sono in realtà semplicemente persone come me.
E come tutte le persone, sono mondi, che possono essere scoperti, intravisti.
Potrei riempire pagine e pagine per descrivere la ricchezza di quei pochissimi minuti di interazione, rigorosamente sul pianerottolo della casa di ciascuno di loro.
Perché, nonostante il protocollo che dobbiamo seguire, nonostante le mascherine, i guanti, le borse della spesa appoggiate per terra davanti all’uscio di casa, nonostante lo scontrino e i soldi messi in una busta; i volontari e i beneficiari sono semplicemente e soprattutto persone che si incontrano per tre minuti di vita durante la quarantena.
Di solito Giovanna cerca di mandare sempre lo stesso volontario da uno stesso beneficiario, per creare maggior sicurezza e un minimo di relazione in più.
E ci sono parole, espressioni ed immagini che difficilmente potrò dimenticare.
Penso a Ludovico, 93 anni, ancora in gran forma con il suo bastone e le ciabatte rumorose e pesanti, che però “in questo periodo è meglio che stia in casa”. Ogni volta mi apre, mi indica una mensola sul pianerottolo proprio di fianco alla sua porta su cui appoggiare le borse. E ogni volta io vedo davanti a me, dietro di lui, appeso sul muro del corridoio di casa sua, il diploma firmato dal Sindaco di Bologna, quindici anni fa, delle nozze d’oro tra Ludovico e Angelina. A giudicare dai venti Euro di spesa settimanale che fa Ludovico, e dal silenzio che si sente sempre quando apre la porta, io credo proprio che Angelina non sia più lì con lui. Ma io, ogni volta, vedo il suo sorriso tranquillo, urlo per farmi sentire e a volte non mi sente lo stesso, e mi immagino lui e Angelina quindici anni fa a stringere in mano e guardare insieme il loro diploma con le nozze d’oro.
Scendo, ripiegando i miei borsoni e mettendo nello zaino la busta con i soldi della spesa e la ricevuta di consegna che mi ha restituito, mi siedo in macchina e mi accingo a fare retromarcia per uscire dal vicolo in fondo al quale abita. Mentre mi sistemo e metto via le cose, lo vedo dietro al cancello, sceso in cortile con il suo bastone a passeggiare, e immagino i mondi che porta con sé. Due sacchetti di spesa in cambio di 93 anni di mondi e di nozze d’oro. Forse, il beneficiario più fortunato sono io.
Penso a Nerina, terzo piano, che la prima volta che sono arrivato sembrava che mi spiasse parlandomi da una fessura strettissima dietro alla porta appena socchiusa di casa, che mi ha chiesto di allontanarmi e ha spruzzato del disinfettante sullo zerbino prima che io potessi appoggiarci le borse della spesa. Mi era rimasta impressa come la beneficiaria più riservata, prudente e impersonale che avessi incontrato. Oggi ci sono tornato per la seconda volta e, complici forse le due telefonate che le avevo fatto dal supermercato per chiederle cosa prendere al posto dell’indivia belga che era finita e per dirle che la farina autolievitante non si trova da settimane ma che finalmente erano arrivate le pizzette Catarì che la volta scorsa non c’erano e quindi, se era d’accordo, gliene compravo una confezione in più perché stavano già per finire nuovamente; o complice forse la bella giornata di sole, o vallo tu a sapere cosa, mi ha chiesto se poteva darmi del tu, che le ricordo tanto suo nipote che è rimasto bloccato all’estero per lavoro, e quanto siamo gentili. E io a sorriderle, e a cercare qualcosa da dire per prolungare di qualche secondo quel momento di relazione, di stare insieme.
L’elenco dei ricordi è molto lungo. L’elenco di questi mondi intravvisti. Il pianerottolo come un telescopio puntato su galassie dietro gli usci di casa degli appartamenti.
La mia prima beneficiaria è stata Maria Rosa. 83 anni, ex professoressa di Italiano. Di Maria Rosa, la prima volta ho notato due cose: le calzine leopardate che spuntavano sotto la vestaglia, e quei due occhi più intensi di un raggio laser. Maria Rosa ha il fuoco di un vulcano. Chiacchieriamo sempre qualche minuto. Mi ha mostrato da lontano il pianoforte che ha in salotto, e insieme al pianoforte le mie narici sono rimaste impressionate dal forte acre odore di fumo di sigaretta che usciva da casa sua; mi ha presentato alla figlia dei suoi vicini del secondo piano, Benedetta, che passava sulle scale in quel momento. Anche Benedetta meriterebbe un discorso a parte, ma questa è un’altra storia. Maria Rosa ha esclamato che Benedetta è come un sole che illumina il pianerottolo, e io ho risposto, e lo pensavo e ancora lo penso davvero, che di soli ce n’erano due, una dentro la casa e una fuori. E mi sono goduto il calore di entrambe e mi sono sentito al centro dell’universo per quei pochi secondi.
Ma Maria Rosa è anche un libro di latino, del 1954, che mi ha offerto la terza volta che sono andato da lei. Non un libro qualunque, ma il suo libro di quando andava al liceo. Un libro dalle pagine gialle e consunte, sgualcito e tenuto insieme da un elastico per evitare che le pagine strappate se ne volino via; e dalle parole, appunti, frasi scherzose e disegni che debordano letteralmente da ciascuna pagina. Parole scritte a matita, magari in qualche mattina di Aprile proprio come queste, di 65 anni fa, da Maria Rosa, senza dubbio con gli stessi occhi di adesso, e dalla sua vicina di banco con cui scherzava e prendeva in giro i professori e faceva le caricature dei compagni di classe.
E io che ricevo quel libro e balbetto, senza troppa fantasia, “ma poi glielo restituisco”, e lei che risponde categorica “mai, quando ti stufi lo butti via, io non lo rivoglio”. E ho capito, o almeno così ho deciso, che quel libro è il testimone di una staffetta immaginaria, è un’istantanea della sua galassia, che Maria Rosa vuole passare a me, e al mondo. E che io sto passando a voi che proprio in questo momento state leggendo queste parole su qualche pagina internet.
Chiara, settimo piano, scala di sinistra, ha 83 anni anche lei, sta bene, è sempre uscita ma i figli non la lasciano più uscire in questo periodo. Ammetto che mi verrebbe da urlarle “Chiara, ma se ne freghi di quello che le dicono i figli, esca!”, ma evito. In fin dei conti non ne so niente, e forse è davvero meglio che ancora per qualche settimana resista. Mi ripete ogni volta che non ne può più, e mi chiede scusa cento volte […] Io le sorrido e le ripeto cento volte che lo facciamo volentieri, e che sono io a ringraziare lei perché ci fa piacere farlo. Per poi tornare a casa, mettere in ordine le borse e le ricevute, e accorgermi che di fianco alla sua firma ha disegnato con la penna un cuore e ha scritto “grazie”.
Martina e Pietro abitano abbastanza vicini, e quindi Giovanna mi manda sempre le loro spese insieme. Martina e Pietro non vedono. Martina vive da sola con il suo gatto, di cui ho dimenticato il nome; Pietro vive con la moglie, e nemmeno lei vede.
Io parlo e cerco di fare sempre qualche rumore, per far loro sentire dove mi trovo e che rimango a distanza, e poi comincio a descrivere loro quanti sacchetti ci sono, e dove li ho appoggiati, e che “nell’ultimo sacchetto contro il muro ci sono le uova”. E immagino, dal mio telescopio sul pianerottolo, immagino come apriranno i sacchetti, come riconosceranno i prodotti, mi chiedo come farei io e mi ripropongo di provare con gli occhi chiusi la prossima volta che andrò a fare la spesa per me, e ammiro la stessa identica velocità con cui contano i soldi delle persone che invece possono vederli. E ogni volta noto i loro occhi, rivolti per terra, o di lato.
E guardando quel cuore di Chiara, nella solitudine di casa mia, o guardando il biglietto con la dedica di Maria Rosa infilato nel libro di latino del 1954, io mi rendo conto che un mese di volontariato mi ha dato di più, almeno sotto certi aspetti, di dieci anni da ingegnere. E non mi riferisco certo allo stipendio o a un contratto a tempo indeterminato.

[…]
* * *
E il mondo, là fuori, com’è? Come dicevo, il mio mondo quotidiano, così come quello di tutti, credo, è cambiato.
Io esco tutti i giorni, e ne sono contento Ho notato che quando cammino per strada si fa più attenzione agli altri. Ci si guarda di sfuggita, talvolta. Ci si vede da lontano, sul marciapiede, e ci si sposta di lato. Ho vissuto, personalmente, due approcci completamente diversi. E li ho visti anche nelle persone che incontro o che incrocio. Uno è la diffidenza, la chiusura, l’evitare lo sguardo. Non solo evitare la vicinanza, ma evitare proprio lo sguardo. E mi immagino, e li ho avuti, pensieri di invidia, di accusa, di diffidenza, di colpevolezza, forse. Un giorno, vincendo inibizioni e vergogna, sono uscito a correre attorno all’isolato di casa mia. Era sera, verso il tramonto, dopo la chiusura dei negozi. Correvo in mezzo alla strada, tanto di macchine non ne passano e così evito di incrociare le persone sui marciapiedi. A un certo punto supero una signora con il cane al guinzaglio. Il cane mi abbaia contro e cerca di inseguirmi. Sorrido alla signora, come sono abituato a fare come per dire “non si preoccupi, non mi sono spaventato e non me la prendo se il suo cane mi abbaia contro… anzi lo capisco, fa solo il suo lavoro!”. Lei non mi sorride, ma urla con disprezzo: “Cos’ha da guardare, guardi che ha ragione il cane!”. Avevo dimenticato che la vita quotidiana è cambiata.
Ma il secondo approccio è la vicinanza, sono i sorrisi. E’ il nuovo valore che ho imparato a dare a quei momenti – prima così scontati e indistinguibili – di incontro. Sono il sorriso che ogni tanto provo a scambiare con le persone che incrocio, noi due sole su un lungo marciapiede, come quando un tempo salutavamo le persone che incontravamo lungo un sentiero di montagna. E’ il cliente del supermercato che, vuoi per la pettorina che indosso, vuoi perché mi vede intento a depennare nomi e nomi dalle mie liste della spesa, vuoi perché mi avranno visto lì ogni giorno nell’ultimo mese, mi chiede “Scusi ma dove sono le uova?” E io felicissimo gli indico la testata dello scaffale vicino alla cassa 2. Sono le due battute scambiate con le cassiere ed i cassieri mentre mi impegno in elaborati calcoli matematici per stimare il numero di sacchetti che mi serviranno per imbustare tutta la spesa.
E sono anche quel pizzico di creatività per scrivere alla mia amica Flavia, che abita proprio a cento metri dalla COOP e dirle: “Oggi vai a fare la spesa?” “A che ora?” “Ci troviamo per un rapido saluto?” “Ma prima o dopo la spesa?” “No, meglio prima, perché poi abbiamo i surgelati!”. E rivedere quindi di persona un volto amico, conosciuto, e trovarsi quasi in imbarazzo su cosa dirsi in quei cinque minuti che abbiamo a disposizione, in cui vorremmo dirci tutto ma sappiamo che non abbiamo tempo di dirci niente; e farsi venire la tentazione di un abbraccio e “andate tutti affanculo”, ma poi pensare che non daremmo un buon esempio alle cento persone e ai cento carrelli in coda in attesa di entrare.
Ecco, se mi chiederanno un giorno che cosa mi sarò portato dietro, che cosa mi sarà rimasto quando tutto questo sarà finito, non lo so cosa risponderò. Ma per adesso, sicuramente so che mi porto e mi tengo stretta l’importanza di un contatto, di un sorriso, di due parole di circostanza, di un cuore disegnato su una ricevuta e di cuori che possono incontrarsi anche dietro a lontanissime mascherine.
