25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne
Il 25 novembre è una ricorrenza istituita il 17 Dicembre 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ed è stata istituita per raccomandare ai governi di organizzare eventi che possano sensibilizzare l’opinione pubblica circa questo fenomeno.
La violenza contro le donne è una realtà presente in tutto il mondo.
E un uomo violento e prevaricatore lo si può trovare tanto ai margini della società, che tra le persone più ricche ed istruite.
La violenza contro le donne è una delle più gravi violazioni dei diritti umani. È un fenomeno strutturale complesso e multifattoriale al cui interno sono ravvisabili aspetti sociali, culturali, politici e relazionali che sono tra loro interdipendenti.
Come definito dall’articolo 3 della Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del Consiglio d’Europa (c.d. Convenzione di Istanbul), l’espressione “violenza nei confronti delle donne” designa tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata.
Purtroppo, a distanza di ventidue anni, anche la nazione più evoluta e democratica può avere casi di cronaca nera in cui una donna viene violentata. O, ancora, uccisa o maltrattata in quanto donna.
Uscire dalla violenza, per una donna, è possibile anche grazie all’importante lavoro delle reti antiviolenza. Fondamentale, in questo senso, è la sistematizzazione di azioni complementari tra loro che garantiscano il necessario sostegno alle donne e ai/alle minori sopravvissuti/e, attraverso interventi di supporto psicologico, legale, sociale e lavorativo, implementati secondo un criterio di empowerment e nel rispetto del principio di autodeterminazione, che vede la donna al centro di ogni decisione che la riguardi, protagonista della propria storia.
Il gruppo di Auser Cultura propone una bibliografia sul tema, potete scaricarla qui
25 NOVEMBRE ore 10.30
Coop centro Andrea Costa
L’AMORE NON HA LIVIDI
Letture per dire NO alla violenza contro le donne.
Letture a cura dell’attrice Donatella Allegro e di Volontarie Auser Bologna e SOS Donna
Installazione artistica a cura di SOS Donna.
LETTURE REALIZZATE DURANTE L’INIZIATIVA
Monologo su violenza e femminicidio di Anna Steri
La scrittrice affida ad un monologo pensieri e parole dedicate alle donne vittime di violenza, donne che non sempre hanno la forza di reagire, donne che sperano e non sanno più volersi bene, annullate sin dentro l’anima da una violenza ingiusta che le toglie il respiro.
“Alice nel paese delle brutte meraviglie”
Mi chiamo Alice, ho 27 anni, e domani mi sposo. Mi trema il cuore dalla felicità. Sento tutte le farfalle nello stomaco, di tutto il mondo, tutte dentro. Sposo Luigi, l’amore della mia vita, l’amore che arriva e ti ci butti dentro. Ed è bellissimo.
Mi chiamo Alice, ho 30 anni, e sono incinta. Ho la nausea alla mattina, appena mi metto seduta sul letto dopo aver aperto gli occhi. E la sera mi viene una fame, una fame di cose introvabili nel frigo, così Luigi deve farsi un paio di supermercati prima di accontentare il piccolo che mi vive in pancia e che reclama cibo. Luigi dice che sono bellissima, io mica gli credo, sono ingrassata di dieci chili, ma mi faccio coccolare lo stesso.
Mi chiamo Alice, ho 31 anni, e da qualche mese stringo fra le braccia Francesco. È buono Francesco. E sa di latte dappertutto, sui capelli, manine, piedini. Lo guardo con meraviglia. Ma, per davvero, l’ho fatto io? Ma, per davvero, è venuto fuori da me? Mi commuovo per ogni cosa. Luigi, no. Luigi alza la voce. “Fallo smettere di piangere, Cristo.”. Ieri gli è scappata una mano sulla mia faccia. L’ho perdonato subito. È stanco. Questa paternità lo trova impreparato.
Mi chiamo Alice, ho 32 anni, e, oggi, guardandomi allo specchio ho notato un livido sul braccio destro, uno su uno zigomo, e uno vicino al labbro. Ora mi trucco per bene e sparisce tutto.
Mi chiamo Alice, ho 33 anni, e, stasera, sono finita al pronto soccorso. Tre costole rotte. Luigi mi ha mandato un calcio su un fianco. Ma non è colpa sua. Non è colpa sua. Lui è così stanco, ed io così distratta che sono caduta in cucina, mentre gli portavo in tavola il piatto e le posate. “Mio marito ha provato ad aiutarmi a rialzarmi, invece mi è caduto addosso.”, così ho detto in ospedale. “Sicura?”. “Sicura.”, ho risposto piano, col dolore che mi tagliava il respiro.
Mi chiamo Alice, ho 35 anni, e, stamattina, Luigi mi ha ficcato un coltello in gola. Ho sentito la lama entrare nella carne. Per qualche secondo ho trattenuto il fiato, e ho pensato “ma sta capitando a me? per davvero sta capitando a me?”. Sono morta dopo qualche ora. Senza più sangue.
Mi chiamo Alice, e, ora, sono nuvola, e pioggia, e terra, e mare. E respiro di madre su tutti gli orfani di questo mondo.
CANTO DELLE DONNE — Alda Merini Steri
Io canto le donne prevaricate dai bruti
la loro sana bellezza, la loro “non follia”
il canto di Giulia io canto riversa su un letto
la cantilena dei salmi, delle anime “mangiate”
il canto di Giulia aperto portava anime pesanti
la folgore di un codice umano disapprovato da Dio.
Canto quei pugni orrendi dati sui bianchi cristalli
il livido delle cosce, pugni in età adolescente
la pudicizia del grembo nudato per bramosia.
Canto la stalla ignuda entro cui è nato il “delitto”
la sfera di cristallo per una bocca “magata”.
Canto il seno di Bianca ormai reso vizzo dall’uomo
canto le sue gambe esigue divaricate sul letto
simile ad un corpo d’uomo era il suo corpo salino
ma gravido d’amore come in qualsiasi donna.
Canto Vita Bello che veniva aggredita dai bruti
buttata su un letticciolo, battuta con ferri pesanti
e tempeste d’insulti, io canto la sua non stagione
di donna vissuta all’ombra di questo grande sinistro
la sua patita misura, il caldo del suo grembo schiuso
canto la sua deflorazione su un letto di psichiatra,
canto il giovane imberbe che mi voleva salvare.
Canto i pungoli rostri di quegli spettrali infermieri
dove la mano dell’uomo fatta villosa e canina
sfiorava impunita le gote di delicate fanciulle
e le velate grazie toccate da mani villane.
Canto l’assurda violenza dell’ospedale del mare
dove la psichiatria giaceva in ceppi battuti
di tribunali di sogno, di tribunali sospetti.
Canto il sinistro ordine che ci imbrigliava la lingua
e un faro di marina che non conduceva al porto.
Canto il letto aderente che aveva lenzuola di garza
e il simbolo-dottore perennemente offeso
e il naso camuso e violento degli infermieri bastardi.
Canto la malagrazia del vento traverso una sbarra
canto la mia dimensione di donna strappata al suo unico amore
che impazzisce su un letto di verde fogliame di ortiche
canto la soluzione del tutto traverso un’unica strada
io canto il miserere di una straziante avventura
dove la mano scudiscio cercava gli inguini dolci.
Io canto l’impudicizia di quegli uomini rotti
alla lussuria del vento che violentava le donne.
Io canto i mille coltelli sul grembo di Vita Bello
calati da oscuri tendoni alla mercé di Caino
e canto il mio dolore d’esser fuggita al dolore
per la menzogna di vita
per via della poesia.
A Bologna ci sono luoghi e presidi a cui è possibile rivolgersi in caso di violenza, fra questi, dal 10 ottobre, ve ne è uno nuovo.
Arriva in Ateneo lo Sportello contro la violenza di genere
Aperto a tutta la comunità universitaria, il nuovo spazio è gestito dalla “Casa delle donne per non subire violenza Bologna”, per contrastare e prevenire la violenza maschile contro le donne e ogni forma di violenza di genere. Un progetto necessario e ancora rarissimo nel sistema universitario.
L’Università di Bologna apre lo Sportello contro la violenza di genere, rivolto a studentesse e studenti, personale tecnico amministrativo, personale docente e ricercatore, collaboratrici e collaboratori a vario titolo con l’Ateneo, CEL (Collaboratori ed Esperti Linguistici), lettrici e lettori, tutor didattici e linguistici, assegniste e assegnisti di ricerca.
Tutta la comunità Unibo può contare anche su questo nuovo spazio di ascolto protetto e di sostegno per le diverse forme di violenza che possono verificarsi sia all’interno del contesto universitario sia al di fuori dell’Università, da parte di partner, familiari, conoscenti e sconosciuti.
Gestito dalla “Casa delle donne per non subire violenza Bologna”, lo sportello considera le violenze e le discriminazioni di ogni tipo e si rivolge a coloro che hanno subito o subiscono violenza, dalle forme più gravi alle forme più nascoste, fino alle discriminazioni di genere, al sessismo, alle molestie legate all’appartenenza di genere, all’identità e all’orientamento sessuale.
Tutti i servizi sono gratuiti (maggiori informazioni sul Portale di Ateneo), offerti anche in lingua inglese e garantiti anche a distanza per una copertura MultiCampus.
Su Sky TG24 la testimonianza di un uomo violento che è riuscito a chiedere aiuto al CIPM, centro che da anni si occupa del trattamento di uomini autori di violenza nelle relazioni intime. “Il passato non si cancella – dice – quello che ho fatto non lo posso cambiare: ma posso migliorare, sempre”.
“Volevo farle del male”: la violenza sulle donne raccontata da un uomo
“Le ho messo le mani al collo. Ero arrabbiato, molto arrabbiato. E in quel momento volevo davvero farle del male”. Le parole escono commosse, a fatica. Sono pesanti, portano con sé tutto il peso della sofferenza inferta. Chi parla è un uomo di 32 anni. Vive a Milano, lavora come chef in un locale prestigioso. Ha un figlio e aveva una compagna, che è diventata vittima della sua violenza. Abbiamo scelto di dargli un nome fittizio, per tutelarne la privacy. Lo chiameremo Paolo. Ma le sue parole, e la storia che state per ascoltare, sono vere.
Il prima e il dopo.
“Ho sempre lavorato molto e quando è nato mio figlio il lavoro si è intensificato: la mia compagna soffriva di depressione post-parto e mi rinfacciava di non esserci mai. Io non ho saputo leggere quel malessere e quel bisogno di aiuto. Al contrario, mi sentivo incompreso perché lavoravo per il bene della mia famiglia, eppure mi sentivo dire che non ero mai presente. Giorno dopo giorno, accumulavo rabbia e risentimento. I litigi erano continui. E quando mi arrabbiavo, mi arrabbiavo parecchio. Allora non ricordavo più cosa dicevo, né quello che facevo. Era una rabbia cieca, travolgente: in quei momenti, poteva capitare qualsiasi cosa”.
“Anche mio padre si arrabbiava spesso con mia madre e quando si arrabbiava la spingeva contro il muro, o per terra, e le tirava schiaffi in faccia. Per me quella era la normalità. Ecco, ho capito che dovevo cercare aiuto nel momento in cui mi sono reso conto che ero diventato esattamente come mio padre. Mi sono visto lì, con le mani attorno al collo della mia compagna, e mi sono congelato. In quell’istante mi sono detto: no, non posso rifare la stessa vita di mio padre e trasmettere questo esempio a mio figlio: devo spezzare questa catena”.
C’è un prima e un dopo nella storia di Paolo. Anni di rabbia, violenza subìta e agita si sono condensati in un istante, nel momento in cui le sue mani stringevano il collo della madre di suo figlio. Poi, il vuoto e lo sgomento. Paolo si è fermato, ha preso in mano il telefono e ha chiesto aiuto. Navigando su internet ha trovato l’indirizzo di un centro che da anni si occupa del trattamento di uomini autori di violenza nelle relazioni intime, un centro che ha l’obiettivo di integrare la sfera della protezione delle donne a quella della prevenzione e del trattamento della violenza da parte degli uomini.
REYHNAEH JABBARI era una donna iraniana di 26 anni condannata a morte e giustiziata nel 2014 per aver pugnalato l’uomo che aveva tentato di usarle violenza.
Per lei si era mossa anche Amnesty International ma non le è stata riconosciuta la legittima difesa.
IN RICORDO DI REYHNAEH JABBARI
Maria Letizia Del Zompo
Hai preferito andartene spiegando le tue ali bianche
anziché sporcare la tua dignità,
svilire la tua bellezza,
rinnegare la tua libertà,
quella che nasce dal coraggio del Vero.
Pugnalasti per difenderti
e ti hanno impiccata
perché certe leggi sono fatte da uomini
che non sopportano donne consapevoli e fiere.
Eri colpevole di essere donna,
giovane, moderna, gentile, forte e bella.
Al processo non hai pianto,
non ti sei disperata,
non hai chiesto perdono.
Avresti potuto salvarti
rinnegando ciò che ti era successo.
Hai preferito morire e donare i tuoi occhi,
il tuo cuore, la tua pelle
a che non diventino polvere,
ma continuino a celebrare vita.
Quante e quanti
avrebbero avuto il tuo coraggio,
il coraggio della vera bellezza
in un mondo che troppo spesso la ignora,
il coraggio della verità
in un mondo che in ogni istante la calpesta,
il coraggio della responsabilità.
Perché chi non si piega alla menzogna
restituisce al mondo intero dignità
e chi muore ingiustamente
per mano di un simile,
preservando il candore della sua anima,
dona luce al mondo intero.
Dal libro “Passi. Versi di un incontro”
La violenza non è solo fisica, può essere anche psicologica e risultare altrettanto devastante e spesso più difficile da riconoscere
La testimonianza di Anna – 37 anni
Dopo quasi 5 anni di matrimonio si è convinta non solo a chiedere il divorzio, con tutto ciò che ne conseguirà, ma anche a raccontarci questa sua storia.
«La schiavitù e le violenze di cui parlo sono molto sottili. Non sono botte. Non mi svegliavo ogni mattina dolorante nel corpo. Ma la mia anima si stava spegnendo. È stato un progredire, lento ma costante. Cinque anni fa quando l’ho sposato sapevo che era un uomo un po’ pignolo o comunque polemico. Era un lato che, ai tempi, mi piaceva, mi sembrava stimolasse il dialogo e il confronto. Poi sono cominciate le violenze psicologiche. La prima volta eravamo in un ristorante giapponese e per un motivo futile (avevo dimenticato il carica batterie in macchina) ha iniziato a urlare dicendo che ero irrispettosa, che l’avevo fatto apposta, che lui me lo aveva chiesto, ma io, egoista, per provocarlo l’avevo lasciato in auto. Ho provato a spiegargli che no, era stata una reale dimenticanza ma si è messo a urlare e ha rotto le bacchette. La gente ci guardava, Io sono arrossita. Al rientro a casa si è scusato. Ho pensato fosse un momento di stress».
«Ma poi gli episodi si sono moltiplicati: sfuriate per la pasta scotta, perché magari non trovava un documento e per lui era per forza colpa mia, oggetti lanciati perché magari gli dicevo semplicemente che non mi andava la pizza o perché si era bruciato il pesce in forno. Per ogni discussione, ogni volta che non ero in accordo con lui per questioni politiche, sociali ma anche di stupidi gossip i suoi toni si infuocavano. Spesso alle tre di notte prendevo la macchina e andavo a dormire da mia mamma.»
«Davanti agli amici cercava di trattenersi, ma non sempre, specie alla fine, ci riusciva. Ha provato a tirarmi una sedia dietro per un motivo talmente futile che non lo ricordo neanche. Le mie amiche sono rimaste di sasso. Ma io lo difendevo: è stanco, è stressato. Ma piano piano non siamo più usciti con nessuno e la mia vita in casa era diventata quella di una serva. Gli davo ragione in tutto. “Sì amore ho cucinato male, sì amore ho sbagliato io, ecc..”. Senza volontà. Aspettavo solo di andare a dormire. Poi un giorno, in una vacanza, perché avevo lasciato su un taxi un maglione, una volta in albergo (era il 2019) mi ha presa per il collo e quasi strozzata. Ho pensato di morire. Quello è stato il primo gesto violento in senso fisico del termine (se escludiamo il lancio di oggetti). Ma da quel momento, qualcosa in me è scattato. Il giorno dopo per lui era come nulla fosse anzi, ha provato subito a privarmi della mia volontà di nuovo: “Ti chiedo scusa, amore, ma se non avessi lasciato il maglione in macchina non sarebbe successo nulla”. Questa frase mi ha gelato il sangue. Ho provato a parlare con i suoi genitori e parenti ma per loro, un’altra volta, a sbagliare ero io. Ricordo un giorno si arrabbiò furiosamente perché gli avevo comperato un paio di calzoni blu. Aveva distrutto mezza casa. Esasperata avevo chiamato sua madre la cui risposta mi ha fatto capire che non avrei trovato alcun aiuto: “Ma certo, lui odia il blu”, fu quello che mi disse.
«Ero arrivata ad avere paura di tutto, perché gli scatti d’ira potevano arrivare per qualsiasi cosa. Quando beveva ancora di più. Mi vergognavo a parlarne con le amiche e tutte mi dicevano che i problemi di coppia erano “normali”, anche urlare, l’importante era che non mi mettesse le mani addosso regolarmente. Ho capito che in tante, magari in forme meno gravi, semplicemente, subivano. Mi è scattato qualcosa in testa. Sono uscita di casa con i miei gatti nella gabbietta, pochi vestiti e non sono più tornata. Ora sto avviando le pratiche per il divorzio. Ora vedo che esistono persone gentili, che se la pasta non è buona ci ridono sopra, ora non devo più stare attenta ad ogni singola parola. Posso sbagliare e farmi una risata.
“Non erano tanto i lividi ad avermi ridotta uno zombie, perché le aggressioni fisiche le conto sulle dita di una mano. Ma il suo volermi prevaricare, la sua ira improvvisa, il suo negare le mie opinioni ed esigenze. Eppure, adesso so, e lo so bene, che quella più forte sono sempre stata io. E questo era quello che faceva paura a lui.»
“Chiedete aiuto se ne avete il coraggio, uscite da questi rapporti che non sono amore. E se qualcuno vi vuole far credere che è normale non credetegli. L’amore non è questo, e questo non è un comportamento normale.”
Anna è laureata, ha un buon lavoro, è intelligente. La violenza psicologica non ha classe sociale e gli esseri umani violenti non sono determinati dal loro portafoglio. È un male insidioso che fa leva sulle debolezze che abitano in ognuno di noi. Saperle riconoscere, secondo Anna, è il primo passo.
Proviamo a riconoscere insieme i comportamenti più comuni del partner che fa violenza psicologica
Svalutazione continua
Il partner che vuole minare l’autostima della donna le ripete in maniera insistente che non vale nulla, che i suoi sogni non sono valevoli di sforzi, che se lui la lascia non ci sarà nessuno che la amerà come lui…
“Non amerai mai nessuno perché non sei stata amata dai tuoi genitori… me lo ripeteva spesso, sapendo che soffrivo del rapporto complicato con i miei e poi aggiungeva che solo lui poteva amarmi nonostante avessi tanti problemi”
Controllo delle amicizie e degli affetti
Capita spesso che l’uomo cerchi di isolare la donna, che la tratti come un oggetto di proprietà adducendo la scusa che vuole proteggerla e cerchi di allontanarla da coloro che “non capiscono il suo amore”:
“Non potevo parlare neanche con le mie sorelle e fratelli”
Gelosie ingiustificate e stalking
Il compagno che vuole usare violenza psicologica di solito è un individuo controllatore, che tempesta la donna di telefonate quando è in giro da sola, vuole sapere con chi è, dove si trova, a volte addirittura come è vestita:
“Un giorno mi disse che se uscivo con una gonna corta mi andavo a cercare delle violenze sessuali. Che se proprio ci tenevo a vestirmi come una poco di buono era meglio che lui fosse con me, al massimo potevo cambiarmi a casa sua e poi uscivamo”
Insulti e minacce
Moltissime che riescono a uscirne raccontano che il compagno aveva iniziato ad arrabbiarsi perché veniva contraddetto per poi finire con insulti e minacce quando si provava ad allontanarsi da lui. Le minacce non riguardavano solo la donna ma anche la sua famiglia:
“Mi ricordo il giorno che riuscì finalmente a lasciarlo. Iniziò ad insultarmi a dirmi che ero una poco di buono (uso eufemismi, non potete immaginare le parolacce), a dirmi che sicuramente lo tradivo, che lui mi amava e che lo avevo distrutto, e a giurare che me l’avrebbe fatta pagare…arrivò persino a chiamare mio padre per dirgli che sua figlia non valeva niente, che era solo una puttana.”
Limitazioni all’autonomia morale ed economica
Dalla vigilanza continua sugli spostamenti, al controllo ossessivo dei soldi sino alla reclusione. Spesso le testimonianze raccontano una vera e propria prigionia, caratterizzata da umiliazioni e attacchi all’autostima continui che hanno portato ad un disagio emotivo importante, ma anche dal controllo delle sostanze economiche della famiglia per limitare le possibilità della donna di rendersi indipendente, sino ad arrivare anche a divieti restrittivi della libertà di pensiero, come quello di leggere un libro, di vedere la tv o di navigare in internet. Il partner ha paura che la donna si informi, sviluppi un pensiero autonomo e lo abbandoni. Si comincia con un “non c’è bisogno che lavori” e si continua così:
“Dopo qualche anno di fidanzamento rimango incinta del primo figlio, io pensavo che un figlio l’avrebbe cambiato, ma niente le cose andavano sempre peggio perché poi avendo una casa nostra lui poteva gestirmi come voleva, non potevo uscire di casa neanche fuori al balcone… quando c’era lui neanche la tv potevo guardare, la guardavo di nascosto con il volume basso perché se arrivava, lui sentiva la voce della tv. Un giorno la maestra di mio figlio doveva parlarmi urgentemente, e lui mi disse ok vai ma devi metterci 5 minuti non guardare nessuno per strada fra 5 minuti ti richiamo per sapere se stai a casa”
Insistenza continua per ottenere rapporti sessuali
Capita spesso che il partner prevaricatore lo sia anche nel rapporto sessuale, rivelandosi eccessivamente insistente con la donna anche quando lei non ne manifesti la voglia. Alcuni giustificano anche i tentativi di abuso con “il troppo amore”.
“Mi diceva che dovevo soddisfare le sue esigenze, che lui era un uomo e che sarebbe andato a cercare un’altra da un’altra parte”
Falsi pentimenti
L’uomo la cui partner cerca di lasciarlo per questi abusi si mostra pentito, piangente e disperato, giura che cambierà e che lo farà solo per amore.
Scappate da queste “persone” perché loro non cambieranno mai, vogliono solo distruggerci giorno per giorno fisico e mente.
IL MIO PRIMO TRAFUGAMENTO DI MADRE – Alda Merini
Il mio primo trafugamento di madre
avvenne in una notte d’estate
quando un pazzo mi prese
mi adagiò sopra l’erba
e mi fece concepire un figlio.
O mai la luna gridò così tanto
contro le stelle offese,
e mai gridarono tanto i miei visceri,
né il Signore volse mai il capo all’indietro,
come in quell’istante preciso
vedendo la mia verginità di madre
offesa dentro a un ludibrio.
Il mio primo trafugamento di donna
avvenne in un angolo oscuro
sotto il calore impetuoso del sesso,
ma nacque una bimba gentile
con un sorriso dolcissimo
e tutto fu perdonato.
Ma io non perdonerò mai
e quel bimbo mi fu tolto dal grembo
e affidato a mani più «sante»,
ma fui io ad essere oltraggiata,
io che salii sopra i cieli
per avere concepito una genesi.
(da “La Terra Santa” – 1984)
La violenza è ancora più grave quando riguarda donne con disabilità
VIOLENZE DEL SILENZIO
Cécil ha trent’anni, una disabilità motoria che l’ha portata a spostarsi in sedia a rotelle, ed una progressiva perdita della vista. Due anni fa ha sposato Nicolas. Da allora sia la vista che i problemi motori si sono accentuati, rendendo difficile ad entrambi l’accettazione del doppio handicap. Il marito sembrava distante, poi è diventato ostile, violento, perverso. In presenza di altre persone continuava ad essere gentile, ma in privato litigava con Cécil per qualunque cosa. Faceva girare la sua sedia a rotelle a tutta velocità e lanciava Cécil contro il muro. La picchiava spesso, e, quando uscivano inventava dei giochi umilianti (come rovesciarle la coca cola tra i capelli). Rideva di tutto ciò, poi la lasciava sola per strada, bagnata, disorientata, ed in lacrime. Trovandosi su una strada in discesa, prendeva la sedia a rotelle e la lanciava a tutta velocità. Lei gridava per la paura. Cécil vorrebbe divorziare, ma non crede di poterlo fare. Anche in questo caso il controllo e la sopraffazione sono agiti facendo leva sulla disabilità di Cécil, sfruttando la sua minore forza, e trasformando uno strumento di autonomia (la sedia a rotelle) in uno strumento di tortura. Un altro importante elemento da mettere a fuoco riguarda il fatto che Cécil, avendo importanti limiti di autonomia, ha bisogno del supporto del marito nello svolgimento di alcune attività quotidiane (ad esempio, sembra avere difficoltà a rientrare a casa quando il marito la lascia sola per strada). Questa dipendenza rende molto più difficoltoso, rispetto alle altre donne senza disabilità, il percorso di emancipazione dalla violenza.
Solange ha cinquantadue anni, è nata senza braccia e senza gambe perché sua madre, mentre era in gravidanza ha assunto il Talidomide, un farmaco utilizzato come sedativo e anti-nausea negli anni ’50 e ’60 che – si è scoperto in seguito – provocava gravi malformazioni congenite nel nascituro. Per la sua autonomia utilizza la sedia a rotelle e le protesi. A vent’anni ha conosciuto Jean-Claude, che di anni ne aveva venticinque. Lui era simpatico, attento, gentile. Si sono innamorati. Una coppia come le altre, anche se fare l’amore era un po’ complicato, e lui le imponeva la sua volontà. Un giorno Solange si è ribellata ed è iniziato l’inferno. Jean-Claude la picchiava, la insultava, poi si scusava e diceva di amarla. Diventava ogni giorno più violento e la picchiava per qualunque cosa. Le ha persino nascosto la sedia a rotelle e le protesi. La faceva cadere, e quando era a terra la prendeva a calci. La violentava più volte al giorno. Lei si è vista morta, ma ha trovato la forza di reagire: “Oggi sono fuori da quell’inferno. Posso rincominciare”.
Questa è una delle poche testimonianze che si conclude positivamente. Anche in questo caso però è d’obbligo constatare che nelle mani di chi usa violenza gli ausili (la sedia a rotelle, il bastone, e persino il tubo della tracheotomia) possono diventare strumenti di controllo e di tortura. È inoltre importante notare che anche nel caso in questione l’aggressore usa la disabilità come pretesto per la violenza.
Donne uscite dalla violenza: una testimonianza
USCIRE DALLA VIOLENZA, LA TESTIMONIANZA DI A.
“Ho subito violenza come tante altre donne che la subiscono, a volte per sempre.
Io sono sempre stata una persona piuttosto autonoma, già dai 15 anni facevo le mie cose, quindi, ritrovarmi in una condizione di controllo e segregazione è stato uno shock per me, non riuscivo a credere a ciò che mi stava accadendo.
Quando sono arrivata in Italia all’inizio è andato tutto bene con mio marito. Dopo 6 mesi, lui è cambiato e la mia vita è diventata un incubo. La violenza è iniziata piano piano. Ho sperato a lungo che lui cambiasse. Dopo alcuni anni non ce la facevo proprio più, ma dicevo a me stessa che se me ne fossi andata non sarei riuscita a sopravvivere, avevo paura perché non sapevo l’italiano, avevo un bambino piccolo, non sapevo che fuori potevo trovare aiuto, ero in un paese di cui non conoscevo niente. Sapevo solo che c’erano i Servizi Sociali che prendono i bambini, perché sia lui che sua madre mi dicevano che se andavo a denunciarlo quando mi picchiava i Servizi Sociali mi avrebbero portato via mio figlio. Io senza il mio bambino non posso stare, immaginavo che se mi avessero preso il bambino sarei morta.
Alla fine, è arrivato il momento in cui non ce l’ho fatta più e sono andata a chiedere aiuto anche se avevo tanta, tanta paura. Sentivo come se qualcuno mi stesse spezzando il cuore e non dormivo la notte. Ma sono andata lo stesso.
È arrivato il momento in cui ho detto basta. Anche se stavo male e avevo il terrore che mi prendessero mio figlio, ho detto a me stessa «Io da questa situazione devo uscire!».
Sono scappata di casa senza niente, nemmeno il pannolino del bambino, e sono andata al Centro Antiviolenza a chiedere aiuto, accompagnata da una conoscente che mi aveva parlato di questo posto. Ricordo che sono entrata e non capivo niente, piangevo tutto il tempo e pensavo che non ce l’avrei mai fatta ad alzarmi in piedi da sola con un bambino piccolo, in un paese di cui non sapevo proprio niente.
Sono state carine, non dimenticherò mai il loro aiuto in tutta la mia vita; mi hanno tranquillizzata sul fatto che i Servizi sociali non avrebbero portato via il bambino. Io però non mi sono fidata tanto all’inizio, perché non conoscevo nulla e aspettavo in ansia l’arrivo dei servizi sociali che avrebbero preso mio figlio, me lo avrebbero tolto, portato via! Tutto il pomeriggio sono stata così e piangevo.
Al Cav mi hanno dato vestiti per me e mio figlio e un alloggio sicuro. La prima notte ho pianto tutto il tempo, non riuscivo a respirare, ma guardandomi allo specchio dicevo «non devo piangere, basta, è finito tutto. Ce la faccio!».
Dopo una settimana, ho fatto denuncia contro il mio ex marito e lì ho conosciuto l’assistente sociale che è stata molto carina con me. Le ho subito chiesto «Ma voi mi prendete mio figlio?» lei mi ha risposto di no, mi ha tranquillizzata. Ho continuato a chiederglielo a lungo, ogni volta che la incontravo. La notte dopo la denuncia ho pianto tutto il tempo, non riuscivo a dormire, né a respirare. Quando ho capito che non avrebbero portato via mio figlio, ho iniziato veramente la mia vita e con il tempo anche il malessere è passato del tutto.
Dopo un po’ di tempo sono andata in un’altra casa rifugio più lontano da dove abitava il mio ex marito. Ho iniziato a studiare per imparare la lingua italiana, mio figlio è stato inserito al nido e da lì non sono mai più caduta.
In seguito, sono entrata in una comunità per iniziare un percorso di autonomia e inserimento lavorativo (in questa fase A. ha ricevuto il supporto del nostro intervento, n.d.r.). Ho iniziato il tirocinio e mi sono sentita col tempo più sicura e autonoma. Era il mio primo lavoro e all’inizio è stato un po’ faticoso, ma con la forza di volontà e il sostegno dell’équipe ho potuto imparare molte cose e stringere nuove amicizie. Di giorno lavoravo e la sera frequentavo la scuola per prendere la licenza media.
Adesso ho finito tutto: il mio ex è stato condannato, ho avuto la separazione e ho ottenuto l’affidamento di mio figlio. Ho preso il diploma di terza media e ho avuto una proposta di contratto presso il luogo in cui ho effettuato il tirocinio. Ora mi sento serena e felice con mio figlio.
Consiglio a tutte le donne che sono maltrattate dagli uomini di chiedere aiuto, non devono vivere nella violenza tutta la vita. L’aiuto là fuori c’è! Noi siamo donne non siamo arrivate in questo mondo per essere maltrattate.”
Una presa di posizione
(Mercoledì, 13/07/2022 di Sara Rossi su Noi Donne)
«Se vai in giro vestita in questo modo, te la cerchi». Che una persona possa dire qualcosa del genere è inconcepibile, figurarsi se si tratta di una a noi cara. Eppure sono state proprio queste parole che, pronunciate da un’amica, hanno dato a Martina Evatore, una ragazza padovana di vent’anni, il coraggio di uscire allo scoperto, denunciando in un solo colpo questo tipo di vergognosi retropensieri e la prepotente, deviata e animalesca convinzione che si possa disporre a piacimento dei corpi altrui: in occasione del concorso per “Miss Venice Beach” a Jesolo con gli stessi abiti che aveva addosso quando, tre anni prima, ancora minorenne, intorno alla mezzanotte, un uomo tentò di violentarla per una strada dell’Arcella, il quartiere più grande e multietnico di Padova.
Neri la maglia e i lunghi e larghi pantaloni neri, scarpe da ginnastica ai piedi e informe giacca verde mimetico: un abbigliamento in fondo comune, comodo e pratico; quello alla “non metti mai niente che possa attirare attenzione/un particolare, solo per farti guardare” di cui canta Vasco Rossi. Con questa “tenuta” la ragazza ha sfilato sul palco e si è poi fatta largo tra i talenti nel canto e nel ballo per prendere il microfono e spiegare la sua scelta: «Qualche giorno fa una delle mie amiche più strette, vedendomi vestita con un abito estivo lungo, attillato sul busto, al corrente della mia vicenda, mi ha detto: “Se vai in giro vestita in questo modo, te la cerchi”. La sua affermazione era in buona fede: sa quello che mi è successo, ma le sue parole hanno fatto scattare in me il desiderio di raccontare che cosa ho passato e specialmente la volontà di sconfiggere questo maledetto stereotipo. Ancora adesso non poche donne non sono libere di vestirsi come vogliono perché un abito piuttosto che un altro potrebbe attirare le attenzioni di qualcuno, istigare ad una violenza… Quello che ha detto la mia amica, altro non è che l’ennesima affermazione di quella natura che mi sento ripetere da quando c’è stato quel tentativo di violenza».
La sua è stata un’aggressione sventata grazie a quanto imparato da un corso di autodifesa iniziato con il padre, ma non per questo meno grave di una riuscita.
Martina Evatore lancia un messaggio di cui la società ha evidente bisogno: non solo perché si fa tanto un gran parlare di “girl power” e di solidarietà tra donne e poi ci si rende piccole piccole, con frasi come “Se vai in giro vestita in questo modo, te la cerchi“, ma perché non si può ricorrere, e non come extrema ratio, a corsi di autodifesa per poter camminare in tranquillità per strada la notte, secondo la religione del “protect your daughters” (“proteggi le tue figlie”), con tutti gli annessi e connessi del caso. E per farsi sentire Martina ha scelto una piazza, dimostrando l’intelligenza e la sensibilità di chi sa che una serata leggera può riunire ogni tipo di persone, inclusi i fautori di quella vittimizzazione secondaria che l’ha toccata tanto da vicino: «È una manifestazione di piazza, con un pubblico eterogeneo, un evento di divertimento e spensieratezza».
A vedere le foto della sfilata, non sorprende che Martina Evatore si sia qualificata per la fase successiva del concorso: la testa alta, la fierezza e la forza con cui ha proposto, pesanti come uno schiaffo e semplici come un’ingiustizia, i suoi abiti al pubblico valgono più di tutte le corone, le fasce e gli abiti da gara del mondo.