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3 dicembre: Giornata internazionale delle persone con disabilità

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3 dicembre: Giornata internazionale delle persone con disabilità

La Giornata internazionale delle persone con disabilità è indetta dalle Nazioni Unite dal 1981. La Giornata mira ad aumentare la consapevolezza verso la comprensione dei problemi connessi alla disabilità e l’impegno per garantire la dignità, i diritti e il benessere delle persone con disabilità.

Ogni 3 dicembre la giornata è dedicata ad un tema specifico: quest’anno si focalizza sul tema della “Trasformazione verso società sostenibili e resilienti per tutti”, con l’obiettivo di favorire iniziative in favore dei disabili in linea con l’attuazione dell’Agenda 2030 e degli altri accordi internazionali tra i quali la Nuova Agenda Urbana.

“Non lasciare nessuno indietro”, è proprio l’indicazione dell’Agenda 2030 per ottenere uno sviluppo sostenibile e inclusivo e promuovere una società resiliente per tutti.

In molti paesi del mondo la disabilità continua a scontrarsi con barriere culturali e ambientali la cui eliminazione rappresenta un obiettivo indispensabile per il benessere di quel miliardo di persone (l’80% nei paesi in via di sviluppo) che convive con una o più forme di disabilità. E le nostre città purtroppo, soprattutto per quel che riguarda le barriere architettoniche, hanno ancora molto da fare.

Anche quest’anno il Ministero della cultura aderisce alla Giornata internazionale delle persone con disabilità del 3 dicembre. Ne promuove i valori e individua come impegno primario il superamento delle barriere fisiche, cognitive, sensoriali e culturali nei luoghi della cultura, con il consueto slogan “Un giorno all’anno tutto l’anno”.

 

Riflessione semi-seria di Marina Cuollo, autrice del romanzo “Viola”

“Durante l’adolescenza e per quasi tutti gli anni universitari guardavo le commedie romantiche di nascosto, come se stessi facendo una cosa proibita”: Marina Cuollo, autrice di “Viola”, racconta come, per molti anni, l’assenza di eroine disabili (su carta e su schermo) l’abbia portata a credere di non poter avere a che fare con l’amore. Da qui l’autrice muove la sua riflessione sull’importanza di rappresentare il diverso, in modo che finalmente possa trovare il suo posto nel mondo reale…

Credo di non averlo mai detto apertamente, ma durante l’adolescenza e per quasi tutti gli anni universitari guardavo le commedie romantiche di nascosto. Sì, avete capito bene, di nascosto, come se stessi facendo una cosa proibita.

Ricordo molto bene quando la sera dopo cena mi ritrovavo davanti alla tv insieme ai miei genitori e mia madre intercettando uno di quei classici, tipo Pretty Woman o Dirty Dancing, ne proponeva la visione: al suo “ci guardiamo questo?”, io alzavo le spalle e mostravo un’apparente noncuranza.

Per non parlare poi di tutti i discorsi che venivano fuori all’università durante le pause in aula studio, quando le mie compagne di corso si struggevano per Hugh Grant fingendo di essere “la ragazza che sta di fronte a un ragazzo”, io le guardavo alzando gli occhi al cielo e mimando un attacco di iperglicemia. La verità invece è che non solo quel film lo avevo visto una miriade di volte, ma mi piaceva così tanto che una volta con la scusa di accompagnare un’amica a Londra ho girato la città in lungo e in largo per cercare la famosa panchina, salvo poi scoprire che non l’avrei mai trovata lì (visto che sta in Australia).

Non so spiegare bene perché, ma dentro ho sempre provato un certo senso di vergogna nel desiderare qualcosa che non sta parlando a me. E io, essendo orgogliosa fino al midollo, quando penso di essere esclusa da determinati contesti reagisco un po’ come le volpi con l’uva: dico che è acerba e non la voglio. Poi però l’uva me la mangio senza farmi notare e infatti, che fosse nella solitudine della mia camera o che trovassi la maniera di far scegliere il film che volevo agli altri, in un modo o nell’altro quelle commedie romantiche alla fine le ho viste tutte.

Ho pensato tanto ai motivi che mi impedivano di ammettere quanto amassi le commedie romantiche, e oggi sono arrivata alla conclusione che non sentirmi rappresentata da nessuna eroina dell’amore su cellulosa, ha confermato una credenza latente che tenevo stipata in un angolino della mia mente: mia cara Marina, accettalo, l’amore non è roba per te. Perché quando non riesci a riconoscerti in nessuna storia, quando cresci in un ambiente che non considera la tua esistenza, quando in moltissimi contesti senti addirittura di non essere la benvenuta, ti convinci semplicemente che la tua vita non sarà mai come quella degli altri.

Ho dovuto aspettare molti anni prima di incontrare un’eroina con disabilità padrona delle sue scelte, che si innamora, che vive la vita tra successi e fallimenti. Chi viene costantemente relegato “a ruoli secondari della vita” fa molta fatica a proiettarsi verso l’esterno, e per gran parte della mia adolescenza ho pensato che il mio futuro fosse già scritto, un futuro fatto esclusivamente di accudimento e cura, come le storie che mi entravano sotto pelle quando incontravo un personaggio con disabilità sullo schermo o sulla carta.

Ragionando su tutto questo oggi comprendo quanto la rappresentazione abbia un potere enorme nella vita delle persone, può plasmare la percezione che abbiamo di noi stessi, può mostrarci innumerevoli strade per raggiungere un obiettivo e può infondere speranza al nostro domani. Esistere all’interno di una storia ci permette di immaginarci anche sul piano reale, allarga i nostri orizzonti e le nostre prospettive.

Quando mi capita di confrontarmi con altre creatrici con disabilità, seppur le nostre vite risultino molto differenti, alla fine ci ritroviamo a sperimentare la stessa sensazione, ovvero quella di non essere arrivate alle nostre professionalità attraverso un percorso lineare, perché spesso quel percorso non esiste, o perché prima di poterlo raggiungere avevamo bisogno di considerarlo possibile.

Sono però fiduciosa che le nuove generazioni avranno a disposizione percorsi differenti e un ventaglio maggiore di possibilità in cui rivedersi. Siamo in un periodo di transizione in cui la rappresentazione (e ancora di più la rappresentanza) comincia a essere un argomento posto sul tavolo delle discussioni, e non perché qualcuno ha deciso di farci questa gentile concessione, ma perché è giusto mostrare finalmente quella parte di mondo che manca.

L’AUTRICE E IL LIBRO – Marina Cuollo, nata a Napoli nel 1981, è laureata in Scienze Biologiche e Dottoressa di ricerca in processi biologici e biomolecole. Scrittrice, speaker radiofonica, conduttrice e content creator, collabora con diverse testate, e si occupa di discriminazioni, pregiudizi, e rappresentazione della disabilità in ambito mediale.

Veniamo alla trama del libro: Viola, generazione millennial, è una biologa napoletana e una testarda certificata, che tra le altre cose è anche disabile. I suoi genitori, iperprotettivi e terrorizzati che alla loro “piccolina” possa succedere qualcosa, non si sognano minimamente che possa avere una vita indipendente, figurarsi una relazione. Ma Viola un ragazzo ce l’ha, anche se da poco. L’ha conosciuto online, e lo sta frequentando di nascosto, grazie alla complicità della sua migliore amica, Federica, che le fa da copertura e racconta un sacco di bugie per coprirla. Quando però i suoi genitori concedono al fratello minore di andare a vivere da solo, Viola per ripicca decide di presentare il suo ragazzo in famiglia. Fa “la rivelazione” e lo porta a casa, di punto in bianco, senza avvertire nessuno. Dopo un primo shock, i genitori si adeguano alla novità, si adeguano fin troppo… Ed è a questo punto che Viola imparerà che bisogna stare attentissimi nell’esprimere i desideri e che voler essere simile agli altri è solo un modo per nascondere che non ci si crede all’altezza del mondo intorno a noi…

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