Per il 78° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE ricordiamo la resistenza delle donne
Auser Bologna quest’anno vuole ricordare la Liberazione, preparata dall’antifascismo e dalla Resistenza, nel segno delle donne.
Quelle donne che, come ha sottolineato in un recente libro Benedetta Tobagi, “furono protagoniste della Resistenza: prestando assistenza, combattendo in prima persona, rischiando la vita. Una ‘metà’ della storia a lungo silenziata”.
Per ricordare tutto ciò Auser Bologna ha innanzitutto ideato e preparato un progetto di Memoria Digitale per il monumento dedicato alle 128 partigiane bolognesi di Villa Spada a Bologna, voluto da alcune partigiane (in particolare da Emma Casari) e realizzato dall’architetto Letizia Gelli Mazzucato, insieme agli studenti del liceo Artistico Arcangeli, nel 1975.
Con la realizzazione del progetto di Memoria Digitale i visitatori del monumento possono conoscere la vita di ciascuna delle 128 donne bolognesi (partigiane, staffette, vittime civili) cadute durante la Resistenza. Accanto ad ogni mattone che riporta il nome della partigiana è stata inserita una targhetta contenente un QR Code che, inquadrato con la fotocamera di un dispositivo digitale (smartphone, tablet), consente di accedere alle relative notizie biografiche contenute nel portale “Storia e Memoria di Bologna”.
Oltre a questo segno materiale innovativo, Auser Bologna propone su questo spazio alcuni testi particolarmente significativi sulla Resistenza delle donne.
“Diventare pioggia, diventare tempesta”
Una macchia bianca sospesa nella fiumana scura che freme, scappa, arraffa, trema; resta sospesa, incerta sulla direzione da prendere. Come vapore indistinto fattosi denso all’improvviso, nube nel cielo di una folla presa in una tempesta tanto pili grande. Come lei, milioni di altre «donne comuni» così dicono i libri di storia, con una brutta espressione che inghiotte le loro innumerevoli, sconosciute singolarità fanciulle in fiore o matrone già anziane, bambine e quarantenni precocemente invecchiate dalla vita, si trovano, senza saperlo, davanti al portone d’ingresso della storia. Donne che, in larghissima parte, di politica non s’erano interessate mai. Nelle campagne e nelle città, dalla borghesia e dalle classi pili umili, stremate dalla fame e dalla miseria della guerra. Molte hanno conosciuto il terrore dei bombardamenti. Moltissime covano il dolore di un figlio, un fratello, un marito o un padre disperso o ucciso al fronte.
Una nuvola non decide di sciogliersi in pioggia, di perdersi in cielo, di farsi tempesta. Accade e basta. Tante di loro la vivono proprio cosi; cosi la raccontano, decenni dopo, stringendosi nelle spalle, ansiose di tornare nell’ombra delle case o delle officine: «E stata una cosa naturale. Ho fatto quello che c’era da fare».
C’è un momento preciso in cui gli argini si rompono, la goccia fa traboccare il vaso, le domande si fanno pressanti, le nuvole si fanno pioggia o tempesta: l’8 settembre 1943. Nello sconquasso dell’armistizio con gli Alleati, sulle macerie del Ventennio, il Paese si spacca e le donne irrompono sulla scena.” (Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, 2022)
Testimonianze
«Il mio nome, Vega, l’ha scelto mio padre: quando sono nata era sera tardi e lui, guardando il cielo, ha riconosciuto la costellazione della Lira: Vega è la stella di prima grandezza. Il mio nome di battaglia, ‘Ivana’, invece l’ho scelto io, non me lo ha dato nessuno. Mi piaceva così tanto che poi anche mia nipote è stata chiamata così. …………………….. Se non c’erano le donne la Resistenza non si sarebbe fatta. Le staffette erano tutte donne, erano pochi gli uomini che avevano quel ruolo, e avevano più paura delle donne, sapesse che fifa che avevano…». Ci racconta la donna. E poi: «La libertà è tutto: poter uscire, parlare, riunirsi, non aver paura di cercare lavoro con una tessera. La libertà è tutto». (Vega Gori, 96 anni, La Spezia, intervista di Jessica Chia, CorriereTV)
“Verso la metà febbraio 1944, in una riunione del nostro comitato clandestino della fabbrica, fu deciso di organizzare un grande sciopero di tutta la fabbrica nelle settimane seguenti. Nei giorni che seguirono migliaia di volantini furono diffusi nei reparti, alla mensa, negli spogliatoi e ovunque. In essi si chiedevano pane, latte, uova, olio, carne, scarpe, copertoni da bicicletta, tabacco, carbone per il riscaldamento, e quanto altro mancava per un minimo di vita civile.
I tedeschi capivano che qualcosa si preparava e, unitamente alle minacce, promettevano che presto sarebbe stato dato tutto il necessario agli operai. Intanto Gianni Masi era stato arrestato, ma la preparazione dello sciopero — che era fissato per il 1° marzo — seppure si fosse fatta più difficile, non subì interruzioni e i lavoratori manifestavano fermezza ed entusiasmo. Alla vigilia del1° marzo scritte inneggianti allo sciopero erano state fatte sulle mura della fabbrica.
La mattina del 1° marzo, fin dal primo turno, ai portoni della fabbrica c’erano le SS e i fascisti. Nei reparti c’era grande animazione. Io che potevo spostarmi, ripassai quasi tutti i reparti per vedere se vi fosse qualche novità.
L’orario di inizio dello sciopero era fissato per le 10, al segnale di prova giornaliera delle «sirene» d’allarme. Gli ultimi minuti sembravano interminabili. Finalmente squillò il segnale delle 10. Mi precipitai nel corridoio centrale. Solo il reparto attrezzeria uscì subito. Ero stata incaricata di dare il segnale di inizio dello sciopero ai reparti e lo feci di corsa. In pochi secondi più di 3.000 operai e impiegati del grande complesso si rovesciarono nel corridoio centrale. Due ore esatte durò la manifestazione e a nulla valsero le ripetute minacce delle SS di ritirarci immediatamente nei reparti di produzione. Alla ripresa del lavoro, fui arrestata assieme ad altri sei o sette operai. Fummo interrogati lungo, ma il giorno dopo fui rilasciata. Tre giorni più tardi la direzione della «Ducati» mi licenziò e allora cominciò per me un’altra fase della Resistenza in collegamento con le formazioni partigiane in qualità di staffetta prima e in seguito di responsabile della zona di Anzola dell’Emilia, in contatto con la 7a Brigata GAP” (Anna Zucchini, Anzola dell’Emilia, testimonianza tratta dal volume “Anzola: un popolo nella Resistenza”, ANPI Anzola dell’Emilia, 1989)
“La mia era una delle tante famiglie bracciantili povere della pianura anzolese e, probabilmente proprio per questo, istintivamente e totalmente antifascista. Rimasta orfana del padre in età giovanissima, vissi nella casa del nonno e feci mie ben presto le scelte politiche familiari; non mi fu, d’altronde, molto difficile, perché quotidianamente ero testimone di palesi ingiustizie: mio nonno, boicottato e picchiato dai fascisti nel 1922, ogni giorno si umiliava a chiedere al falso sindacato una giornata di lavoro, ma ogni giorno i sindacalisti fascisti gli rispondevano: “torna domani”, senza però che per lui ci fosse mai un domani di lavoro. Un mio zio, Ettore, arrestato nel 1930 per propaganda comunista, venne processato dal Tribunale Speciale. Mio nonno e mio zio, dichiarati “sovversivi”, venivano preventivamente incarcerati alla vigilia delle ricorrenze fasciste, delle mai dimenticate “celebrazioni proletarie” come il 1° Maggio, o in occasione delle frequenti visite di alti gerarchi del regime dominante. Non riuscivo a capire perché gli uomini non fossero liberi di esprimere le proprie idee e le proprie speranze e perché si dovesse pagare con la fame, le violenze fisiche od il carcere, la fedeltà ai propri ideali. Capivo soltanto che il regime, il quale impediva a mio nonno e a mio zio di esprimere le proprie idee e che, per le loro idee, li puniva incarcerandoli e affamando i loro familiari, non solo non meritava d’essere aiutato, ma doveva essere contrastato e combattuto. Proprio per questo motivo, seppur bambina, non volli mai gridare “viva il duce”, nemmeno quando, alla colonia elio-terapica per i bambini poveri, era d’obbligo farlo; ricordo che venivamo schierati nel cortile della scuola durante le visite del “federale” o di qualche altra personalità e in quelle occasioni, nella confusione generale, riuscivo sempre a nascondermi in un angolino e ad evitare di inneggiare al capo di un regime che aveva tolto le più naturali libertà ed oppresso le categorie sociali più deboli. Si trattava, però, di una opposizione al fascismo del tutto ereditaria ed istintiva, che rimase tale fino all’8 settembre 1943, la data che segnò per il popolo italiano l’inizio della lotta armata al nuovo regime nazifascista, per la costruzione di uno stato democratico; per me, l’8 settembre significò il passaggio dall’infanzia alla giovinezza e dall’antifascismo irrazionale all’antifascismo cosciente e attivo. Il 9 settembre, nella gioia di quei giorni, schettinai per l’ultima volta sull’asfalto della via Emilia, totalmente deserta di automobili e di macchine da guerra, in compagnia delle amiche e di taluni giovinetti che ci avevano raggiunto da Bologna. Per i giochi, però non ci fu più tempo. La mia casa cominciò ad essere frequentata da antifascisti che tentavano di porre le basi organizzative per la lotta armata. Poco alla volta, fui coinvolta nei discorsi e nell’attività dei vari Tommaso Bosi, Giuliana Guazzaloca, Dante Sarti, Doviglio Carpanelli ed altri e potei partecipare a due successive riunioni organizzative tenute presso le abitazioni di due validi resistenti: Alvisi e Panzarini. Più tardi, l’organizzazione clandestina otteneva i primi risultati con l’inquadramento e la sistemazione presso basi contadine del primo nucleo di sappisti, aggregati in seguito alla 63a Brigata Garibaldi, e riuscì poi a creare le condizioni per la permanenza, ad Anzola, di un distaccamento della settima brigata GAP. Io potei operare come staffetta ed ebbi, in momenti successivi, i compiti di recapitare stampati in varie località, di tenere i collegamenti con Calderara e Zola Predosa, di trasportare viveri alle basi partigiane di Bologna e, talvolta, di trasferire armi. Naturalmente tentavo anche di reclutare al movimento partigiano i nuovi giovani disponibili e di osservare gli spostamenti e la disposizione delle forze tedesche, che comunicavo al comando.
Per la verità, i compiti assegnatimi non mi sembravano particolarmente prestigiosi o difficili e talvolta mi lamentavo del mio ruolo troppo insignificante; ma mi resi conto, quasi subito, che, data la mia età, non avrei potuto compiere nulla di diverso da quanto stavo già facendo. Collaborai ad organizzare, sotto la guida del CLN, la manifestazione delle donne anzolesi che, l’8 luglio 1944, si recarono alla sede comunale, allora trasferita nella località Immodena, per chiedere che il grano dei nostri contadini rimanesse in Italia” (testimonianza di Silvana Guazzaloca, Anzola dell’Emilia, tratta dal volume “Anzola: un popolo nella Resistenza”, ANPI Anzola dell’Emilia, 1989)
Silvana Guazzaloca (a sinistra) con la madre
Alcune proposte di lettura
Teresa Vergalli, Una vita partigiana, Mondadori, 2023
«Sono andata a scuola fino al bombardamento di Reggio Emilia, il 7 gennaio 1944. Dopo, le magistrali furono trasferite più a nord, troppo lontane per me, che avrei dovuto raggiungerle pedalando. Avevo sedici anni. A casa ho detto subito che volevo aiutare mio padre e i suoi amici. Volevo entrare nella Resistenza. Avevamo impressa sulla pelle l’avversione per quella violenza e per le angherie che stavamo subendo, i rastrellamenti, i saccheggi, gli incendi, le uccisioni pubbliche: era normale essere sfacciatamente antifascisti.» Teresa Vergalli è stata partigiana combattente, nome di battaglia Anuska.
Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi, 2022
La Resistenza delle donne è dedicato «A tutte le antenate»: se fosse una mappa, alla fine ci sarebbe un grosso «Voi siete qui». Insieme alle domande: E tu, ora, cosa farai? Come raccoglierai questa eredità?
Ilenia Carrone, Le donne nella Resistenza, Infinito, 2014
È il 1943. A Carpi si consolida una forte Resistenza di pianura. Accanto agli uomini, le donne combattono, rischiano recapitando messaggi e volantini, nascondono i ricercati. Quindici figlie e figli di partigiane di Carpi raccontano che cosa rimane nella memoria popolare della Resistenza al femminile. La miseria, la povertà della guerra, la solidarietà in situazioni estreme, a volte la pietà per il nemico: tutto traspare dalla Memoria per restituire un quadro che riconosce alle donne e alle madri partigiane il ruolo fondamentale assunto nella nostra Storia.
Ada Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, 2014
Un libro di lotta, coraggio, passione e speranza. Uno dei documenti più avvincenti e appassionati della Resistenza. La prima edizione uscì nel 1956.
La Resistenza delle donne, a cura di Giorgio Vecchio, 1943-45, In Dialogo, 2010
Un volume dedicato alla Resistenza delle donne fra il 1943 e il 1945. Gli interventi a carattere storico di Giorgio Vecchio e Elisabetta Salvini, insieme alle numerose testimonianze raccolte, consentono di colmare un vuoto nella dettagliata ricostruzione di un fenomeno complesso e unico nella storia del nostro Paese. Dopo decenni nei quali si è identificata la Resistenza con la figura eroica del partigiano con il fazzoletto rosso al collo e il fucile in mano, oggi emerge la consapevolezza di una molteplicità di altre importanti figure, tra cui quelle di molte donne, di ogni classe sociale, e di tanti cittadini comuni, di preti, suore e frati.
Marina Adidas Saba, Partigiane, Le donne nella Resistenza, Mursia, 1998
Staffette, fattorine, infermiere, vivandiere, sarte. Le donne, nella Resistenza, erano ovunque. Ricoprivano tutti i ruoli. Trasportavano cartucce ed esplosivi nella borsa della spesa. Erano le animatrici degli scioperi nelle fabbriche. Avevano cura dei morti. Un certo numero di donne imbracciò persino le armi. Molte vennero uccise, deportate ed arrestate.